Le dimissioni da ceo di Travis Kalanick il duro pure troppo cofondatore di Uber potrebbero aprire una nuova pagina per la storia di quella società che è stata prima simbolo di ciò che è la sharing economy e poi di ciò che di solidaristico ha poco o nulla.
In effetti, il rapporto di Uber con le regole è sempre stato controverso, con conseguenze ambigue sulla sua immagine, legittimazione e legittimità. In ogni città e in ogni paese la piattaforma che ha creato un’alternativa al trasporto urbano si è trovata a combattere le norme che governano il servizio dei taxi: godendo, all’inizio, dell’appoggio degli innovatori favorevoli all’introduzione di un sistema competitivo in un settore che appare invece corporativo; ma generando, in seguito, anche dubbi per il modo in cui tratta i lavoratori, per le modalità della formazione del prezzo del suo servizio, per una cultura aziendale eccessivamente aggressiva. Con l’uscita di scena del ceo di Uber, accusato di essere disinteressato alle norme legali ma anche alle norme sociali che governano una civile convivenza trai generi. il tentativo di ripristinare una certa credibilità della piattaforma è avviato. Ma la storia di Uber, eccessiva da molti punti di vista, è esemplare: molte di queste società, da Uber ad Air Bnb, da Apple a Facebook, da Google ad Amazon, sembrano sempre in rotta di collisione con i sistemi legali. Da un lato, mettono a nudo le inefficienze e le rendite di posizione garantite anche da leggi più adatte al passato che al futuro; dall’altro lato, sono accusate di prosperare aggirando i vincoli fiscali, le regole per la protezione dei dati personali, le norme sulla concorrenza, le garanzie per i consumatori, i diritti dei lavoratori. Quale può essere l’evoluzione di tutto questo? L’accelerazione innovativa impressa dalle piattaforme digitali in alcuni settori si configura innanzitutto come una sfida sul piano dei modelli di business. Editoria, turismo,commercio sono tra i settori che molto hanno risentito della digitalizzazione. La tecnologia abbatte i costi di transazione, rimette in discussione le ragioni di scambio, riduce le barriere protettive per settori e categorie professionali, modificale strutture dei mercati. E, appunto, sfida le norme tradizionali: creando dimensioni operative che consentono di aggirarle o riformularle e imponendo alle autorità politiche o giudiziarie un ritmo di adeguamento che non sempre queste istituzioni sembrano in grado di tenere. Ma il primo passo è quello di definire di che cosa stiamo parlando. La sagacia di molte di queste piattaforme è stata quella di richiamarsi a concetti socialmente avvertiti e di sollecitare la sensibilità di chi pensa che i sistemi tradizionali non siano altrettanto consapevoli: definire sharing economy il lavoro di Uber, per esempio, è stato un colpo magistrale. Condividere asset non sfruttati appieno per offrire servizi in mercati poco efficienti era un bel modo di presentare le idee di Uber, di AirBnb e altri. Aiutava la legittimazione, se non la legalità delle loro operazioni.
Ma col passare del tempo, l’aspetto finanziario ha sovrastato quello sociale. In certi casi, come appunto in Uber o Foodora o altri, le logiche di governo dei lavoratori hanno assunto forme che apparivano progressivamente dure nei loro confronti e i tribunali che hanno considerato quelle società non come piattaforme che abilitavano un mercato socialmente utile ma come sistemi di gestione di lavoretti on demand, con vantaggi eccessivamente asimmetrici si sono moltiplicati. Nello stesso tempo le prese di posizione delle autorità, per esempio europee, contro la condotta economica dei giganti digitali come Google, Facebook, Apple, in termini di protezione della privacy, di garanzia della concorrenza, di lotta all’elusione fiscale, si sono fatte progressivamente più dure. La difesa delle categorie attaccate dall’innovazione, come gli albergatori, ha trovato una formulazione normativa innovativa nella distinzione di trattamento tra chi fa un’attività di ospitalità amatoriale e chi ci costruisce una vera e propria professione.
Ma il problema in genere non è di mancanza di leggi. Il problema delle autorità è quello di non arrivare troppo tardi con troppo poco nell’applicazione delle leggi esistenti alle condizioni economiche in accelerato mutamento che si determinano nel contesto digitale. In effetti, la materia di cui sono fatte le piattaforme digitali è il software, cioè – come dicono i programmatori – il codice: proprio come le leggi diventano i codici che regolano la società, anche il software, gli algoritmi, le interfacce, sono codice che regola la società. E le due accezioni del termine codice tendono a farsi concorrenza: essendo le leggi determinate da processi lenti ma teoricamente democratici ed essendo il software generato da processi veloci ma di solito orientati a perseguire gli interessi e i valori particolari di chi lo scrive o lo finanzia.
L’equilibrio per ora è lontano, ma si troverà in un salto di qualità nella consapevolezza delle autorità politiche e giudiziarie per quanto riguarda l’importanza della dimensione digitale nella vita quotidiana. Una classe dirigente finalmente alfabetizzata è da tempo necessaria per le società digitalizzate. Questa tecnologia non è più il futuro. È la realtà nella quale è immersa la società. Solo da qui può partire un legislatore sagace che si attrezza ad avere senso nel contesto attuale e modifica i processi per soddisfare le necessità di coesione sociale e
convivenza civile.
[Fonte Il Sole 24 Ore – 26 giugno 2017]