In questo periodo due neologismi stanno spopolando nell’anglosfera. Una coppia di parole entrate nell’uso e nel linguaggio comune, che capita di sentire pronunciate in continuazione nelle città degli Usa. E che rimandano a quella tecnologia che è parte fondamentale dell’esperienza di vita degli individui nella società delle Reti e della rivoluzione digitale permanente. Al punto che gli algoritmi (termine che proviene dal latino medievale algorithmus o algorismus, dal nome d’origine del matematico arabo del IX secolo d.C. Muhammad ibn Musa alKhuwarizmi) sono familiarmente diventati gli «algos», e i robot si dicono «bots».
Abbreviazioni che evidenziano dimestichezza e confidenza, e mostrano per parafrasare la sociologa Shirley Turkle come le tecnologie digitali si siano trasformate in un momento essenziale della «conversazione necessaria» della nostra epoca.
Oltre a riempire concretamente la quotidianità, perché gli algos sono dovunque e determinano il funzionamento della quasi totalità delle macchine i cui ci serviamo, dagli elettrodomestici ai pc, fino ai gettonatissimi social network. E così è anche per bots, un concetto elastico che varia al mutare delle piattaforme, con cui si designano genericamente i robot e i programmi che hanno accesso alla rete e agli stessi sistemi di comunicazione e interazione con le macchine impiegate da gli utenti umani. I bots sono quindi tantissimi, e possono fare qualunque cosa: dal rispondere ai messaggi in modo auto matico al generare le reti sfruttate dagli hacker e i troll che inquinano le campagne elettorali online; e rientrano nella definizione i personaggi alias con cui si gioca nei videogame, come pure i sempre più diffusi assistenti virtuali, i «chatbots» (o «robot chiacchieroni»), le utenze automatizzate che prenotano la cena o cercano le previsioni del tempo e i voli aerei. Le loro radici vengono fatte risalire al celebre test che Alan Turing (di cui Steve Jobs era un fan sfegatato) sviluppò negli Anni Cinquanta per stabilire se una macchina si riveli in grado di pensare; e difatti i bots sono, in definitiva, intelligenza artificiale portatile e da taschino in virtù della potenza e convergenza tecnologiche assicurate dagli smartphone. E oggi ci troviamo così nel campo di quelle che possiamo chiamare, a tutti gli effetti, digitai humanities. L’IA, le nanotecnologie, le neuroscienze, gli algoritmi genetici, le reti neurali, tutto ciò che è frontiera tecnoscientifica sta facendo sgocciolare le sue ricadute pratiche sulla nostra esistenza di tutti i giorni, a una velocità stupefacente perché l’età digitale è anche l’era delle accelerazioni. E a colpire, nella conversione di algos e bots in una sorta di intercalari e in epistemologia da sala pranzo e da salotto, è il fatto che, contemporaneamente, si ritira in buon ordine quel filone novecentesco di critica luddista o distopica della tecnologia che aveva intuito, ma secondo una prospettiva profondamente negativa, quanto essa sarebbe divenuta centrale nell’esistenza dalla parola «robot» come sinonimo di lavoro forzato coniata nel 1920 dallo scrittore ceco Karel Čapek al rigetto heideggeriano della tecnica, sino alla narrativa cyberpunk. Se si discorre tranquillamente in tinello di bots e algos, e i media si occupano spesso dell’orizzonte del postumano, significa che siamo entrati definitivamente nella civiltà delle macchine, e la tecnologia viene considerata non più distopia, ma un’alleata indispensabile. Totalmente user friendly: ecco la sua principale vittoria sul piano delle mentalità e dell’immaginario popolare, insieme alla sua miniaturizzazione; quella che era Big Science nell’America del secondo dopoguerra ora ce la ritroviamo sulla scrivania dell’ufficio o sul tavolino di casa, e d’altronde i due ambienti non hanno più confini netti come in passato.
Così come non ce li hanno più la sfera del reale e quella del virtuale. E nell’inedito spazio sociale dell’ «interrealtà» che viviamo adesso la critica non può più essere apocalittica, ma deve essere «integrata» (e con sapevole del Nuovo Mondo), come quella che muove, per esempio, Martin Ford nel suo libro Rise of the Robots (tradotto in italiano da Il Saggiatore), che di mestiere fa, guarda un po’, l’imprenditore high tech nella Silicon Valley.
[Fonte La Stampa – 14 Giugno 2017]